Categoria: Libri

  • Mattatoio n.5 di Vonnegut

    Mattatoio n.5 di Vonnegut

    “Trastulli indifferenti in mano a forze immense”

    Mattatoio n. 5 è un’indagine sulla natura del tempo, della libertà e della sofferenza umana, un’opera che, pur essendo specificamente legata alla Seconda Guerra Mondiale, mantiene una straordinaria attualità e universalità.

    So it goes, “Così va la vita”, la frase che nel testo compare ogni qualvolta sopraggiunge una morte o un evento tragico. La sua ripetizione diventa una sorta di mantra, un modo per affrontare l’assurdità e l’inevitabilità della vita e della morte. Così come la ripetizione di “e così via”, non una semplice locuzione che suggerisce una continuazione o un completamento di un elenco, ma il simbolo di un’infinità di eventi e sofferenze che non trovano una fine.

    Mattatoio n.5 è fatalismo: quando qualcosa di brutto accade viene semplicemente registrato come parte della routine della vita, ed un evento dietro l’altro si sussegue lasciando nascosto il senso di tanta barbarità.

    Ho detto ai miei figli che non devono, in nessuna circostanza, partecipare a un massacro, e che le notizie di massacri compiuti tra i nemici non devono riempirli di soddisfazione e gioia. Ho anche detto loro di non lavorare per società che fabbricano congegni in grado di provocare massacri, e di esprimere il loro disprezzo per chi pensa che congegni del genere siano necessari.

    Vonnegut riesce a coniugare l’assurdo e il tragico, l’umorismo e il dolore, per affrontare uno dei temi più universali e devastanti: la guerra. E usa la guerra per parlare della vita, criticando aspramente il potere che induce persone comuni a vivere la peggiore delle esistenze e la peggiore delle morti. La guerra è un’orribile macchina che schiaccia gli esseri umani, senza alcuna logica né giustizia.

    C’erano gli americani, quattro delle loro guardie, alcune carcasse di animali e nessun altro. Le altre guardie, prima che cominciasse il bombardamento, erano tornate al calduccio delle loro case a Dresda. Sarebbero rimaste tutte uccise insieme alle loro famiglie.
    Così va la vita.

    Billy Pilgrim, tra alienazione e impotenza

    Il protagonista è Billy Pilgrim, un soldato statunitense che, durante la Seconda Guerra Mondiale, viene fatto prigioniero dai nazisti e deportato in Germania. Qui assiste alla distruzione della città di Dresda durante un bombardamento alleato, una delle atrocità più terribili e controverse della guerra.

    Ultimo veniva Billy Pilgrim, a mani vuote, e tristemente preparato alla morte.

    Ma Billy viaggia nel tempo quantomeno con la sua mente, rivivendo e anticipando momenti della sua esistenza, in un continuo ritorno a eventi traumatici che si sovrappongono al presente. La sua esistenza si mescola tra momenti vissuti e momenti futuri, senza una vera distinzione. Questo non è solo un espediente stilistico, ma rappresenta un modo per Vonnegut di esplorare la memoria e il trauma.

    Billy Pilgrim è l’incarnazione di una passività che trascende l’ordinarietà e si immerge nell’assurdo. Kurt Vonnegut costruisce su di lui un personaggio che non possiede né le caratteristiche di un eroe né quelle di un antieroe, ma piuttosto è l’archetipo dell’uomo alienato, intrappolato in un destino che non comprende e che, a sua volta, non cerca di modificare. La sua fisicità è descritta come ordinaria, anonima, e la sua mente è altrettanto frammentata, ma è proprio in questa mediocrità che risiede la sua grandezza tragica: Billy è l’individuo che non si ribella al caos del mondo, che si lascia trasportare dagli eventi senza mai cercare di sfidarli. Anche perché, quando la violenza è così brutale, restiamo inermi.

    “Sa,” disse, “noi qui, la guerra abbiamo dovuto immaginarcela, e ci siamo immaginati che a farla fossero degli anziani come noi. Avevamo dimenticato che a fare la guerra sono i ragazzini. Quando ho visto quelle facce appena rasate, è stato uno choc. ‘Dio mio, Dio mio’, mi sono detto, ‘questa è la Crociata dei Bambini’.

    L’assurdità della guerra

    Vonnegut, con il suo stile irriverente e cinico, non si limita a raccontare la guerra come evento storico, ma ne esplora la sua natura assurda e paradossale. La guerra, per Vonnegut, è un ciclo infinito di violenza e sofferenza, una realtà che si autoalimenta senza scopo alcuno, ma che, nello stesso tempo, diventa il fulcro di un’esistenza che è ormai irrimediabilmente segnata.

    […] perché non c’è nulla di intelligente da dire su un massacro. Si suppone che tutti siano morti, e non abbiano più niente da dire o da pretendere. Dopo un massacro tutto dovrebbe tacere, e infatti tutto tace, sempre, tranne gli uccelli.

    Il libro si snoda su un forte contrasto tra la tragedia e la comicità, nella mescolanza di temi estremamente seri, come la morte, la guerra e la sofferenza, con situazioni assurde, dialoghi strambi e un umorismo beffardo che spesso sembra inappropriate rispetto alla gravità degli eventi descritti. Questa combinazione crea una distanza emotiva che, pur riducendo la drammaticità, enfatizza l’assurdità intrinseca dell’esistenza umana.

    Quasi non ci sono personaggi, in questa storia, e quasi non ci sono confronti drammatici, perché la maggior parte degli individui che vi figurano sono malridotti, sono solo trastulli indifferenti in mano a forze immense. Uno dei principali effetti della guerra è, in fondo, che la gente è scoraggiata dal farsi personaggio. 

    Secondo Rivista Studio, “Il capolavoro di Vonnegut è la lettura giusta per chi vuole conoscere un pacifismo adulto, consapevole dell’inevitabilità della violenza e capace di respingere i tentativi di ridicolizzazione.”

  • Le cose che abbiamo perso nel fuoco di Mariana Enriquez

    Le cose che abbiamo perso nel fuoco di Mariana Enriquez

    Tra gotico moderno e orrore sociale, è del reale che dovremmo aver paura

    Nei racconti di Mariana Enriquez il terrore non nasce solo dagli elementi fantastici, ma dalla violenza sistemica, dall’oppressione e dalla memoria di un paese segnato dalla dittatura e dal femminicidio. Legati da temi ricorrenti, come la sparizione, la brutalità quotidiana e il corpo femminile come luogo di conflitto e resistenza, denunciano e inquietano.

    Ci sono denti caduti, unghie strappate, presenze inquiete e misteriose, malattie mentali che sono portali verso il terrore, la paranoia, la deformità, elementi classici dell’horror che non si limitano a spaventare, ma a provocare riflessioni profonde sulle dinamiche di potere, le disuguaglianze e le paure collettive.

    L’orrore della Enriquez è radicato nel quotidiano.

    Ritroviamo scenari urbani desolati, affollati da tossicodipendenti, ladri, violenti, assassini, in una metropoli insicura, pericolosa, instabile: l’ambientazione è più che reale, le case abbandonate della città sono molto più spaventose di quelle classiche del genere.

    Povertà e indifferenza sociale, abbandono istituzionale, “casi in cui il crimine era mescolato con la miseria.” La polizia è corrotta, brutale, inaffidabile, incarna l’oppressione con una presenza pericolosa e ambigua, complice di abusi.

    Il disagio e la confusione finivano per spingere in strada i bambini: vivere in quelle stanze era talmente insopportabile che la gente passava il tempo sul marciapiedi, soprattutto i più piccoli, che scorazzavano in giro.

    I bambini di Mariana Enriquez tra presente e passato

    Veri specchi della società sono i bambini. I bambini di Mariana Enriquez non sono mai figure innocenti o protette, ma rivelano un’infanzia segnata da dolore, sparizioni, torture, paura (come ne Il bambino sporco, primo racconto, figlio di una donna incinta dipendente dalla cocaina che vive su un materasso per strada).

    L’infanzia è uno spazio liminale, in cui il confine tra realtà e immaginazione è più fluido, e in Le cose che abbiamo perduto nel fuoco questo confine diventa l’accesso al mondo terrificante degli adulti. I bambini, simbolo del futuro, sono intrappolati in vite che risentono ancora di terribili conseguenze di un passato violento e irrisolto.

    Mi dissero che i militari avevano costruito il ponte e avevano infilato dei morti nel cemento, gente che avevano ucciso e nascosto lì.

    In Bambini che tornano, la presenza dei bambini che sono stati vittime di sparizioni forzate durante la dittatura argentina è un richiamo alla memoria storica del paese.

    Gli/le adolescenti, invece, detestano la generazione precedente, distrutta e preoccupata, avvilita e incapace di reagire. A emergere, poi, sono ragazze che devono difendersi da sole.

    Le donne di Mariana Enriquez

    Protagoniste complesse, che incarnano la violenza, la sofferenza, la trasformazione, le donne sono vittime, ma agenti di resistenza e sovversione. Le alleanze tra loro sono fondamentali e spesso costituiscono una rete di supporto e solidarietà.

    Da Andrea nessuno faceva domande: suo padre era sempre ubriaco e lei di notte chiudeva la porta della propria camera per non farlo entrare.

    L’ultimo racconto, che dà il titolo alla raccolta, è quello che affronta in maniera più diretta la violenza di genere. La storia ruota attorno alle donne che si sono bruciate con l’acido come forma di protesta e reazione contro le brutalità che hanno subito, una lotta contro un sistema che le ha reso invisibili e marginalizzate. In un mondo dove la violenza contro le donne è un’epidemia silenziosa, il gesto di bruciarsi con l’acido diventa un atto di auto-affermazione, un modo per ridisegnare il proprio spazio e dare visibilità a un dolore che è stato troppo a lungo ignorato.

    Perchè leggerla?

    Mariana Enriquez è diventata una delle autrici più celebrate sia in Argentina che a livello internazionale. La sua capacità di combinare l’horror con temi sociali urgenti, trattando con particolare attenzione le condizioni delle donne e le problematiche legate alla violenza di genere, ha contribuito a farla riconoscere come una voce unica nel panorama letterario.

  • Meno di zero

    Meno di zero

    Il vuoto terrorizzante dei personaggi di Bret Easton Ellis

    Nov 3, 2023

    La paura del vuoto, la senti? Io la sento spesso e, a volte, con una violenza tale che il vuoto pare più distruttivo del reale. Leggere Meno di zero di Ellis mi ha condotto in un viaggio verso la profondità di quel vuoto che ci circonda e che finisce per risucchiarci, dallo stomaco alla testa, in una lenta, lentissima spirale di vacuo sconforto, disperazione. Tutti i protagonisti di Meno di zero vorrebbero urlare, ma sono muti. Popolano le vette delle classi sociali ma raschiano il sottosuolo.

    – Voglio tornare indietro – dice Daniel, piano, a fatica.

    – Dove? – gli chiedo, incerto.

    C’è un lunga pausa che mi manda in paranoia, poi Daniel finisce di bere, tormenta gli occhiali da sole che non si è mai tolto e dice: – Non so, indietro e basta.

    I protagonisti sono universitari diciottenni, la cui esistenza è così vuota che il ricordo dell’infanzia, infelice o meno, li confonde, commuove, sconvolge. Il pensiero di essere stati bambini.

    Indietro. Perché vivono come fantasmi, “l’uomo continua a fissarmi ma io continuo a pensare solo che o non mi vede o io non ci sono, in questo posto.”

    Esserci significa riempire il silenzio con dialoghi indifferenti, insignificanti, esserci significa non esserci, di fatto, perché per farcela bisogna tirare cocaina continuamente, ingurgitare barbiturici a ogni ora, o il Valium, o quel che sia. Tranquillanti per animali, quando capita. Lo fanno i ragazzi, lo fanno i ragazzi più piccoli, i genitori, i nonni, sono tutti sempre ubriachi, la loro vita è ubriaca, di quelle ubriachezze violente, che ti fanno vomitare e piangere e non c’è mai pausa. Mai lucidità.

    Ad ogni proposta fatta per riempire il tempo Clay, il protagonista che parla in prima persona, risponde sempre “Certo, perchè no”, e questo certo-perchè-no ci accompagna fino alla fine come un’agonizzante ricerca di un significato che non c’è, perché no, se non ci sono limiti, se non ci sono regole, se abbiamo già tutto. Se tutto è finito già.

    Clay si fissa sul cartello che dice Sparire Qui. Sparire, non esserci. Per non vedersi sparire, in questa Los Angeles degli anni Ottanta, tutti indossano occhiali da sole, non se li tolgono mai. A nascondere gli abusi di droghe e il dolore, a pari modo. A non voler vedere e farsi vedere, che tanto comunque non ci si vede.

    Ma non resistevo a lungo, perché quando vedevo i miei occhi nello specchietto retrovisore, infossati, rossi, spaventati, venivo invaso da un vero e proprio terrore, non so perché, e tornavo a casa di corsa.

    Non si vedono e non si guardano, vorrebbero dirsi, ma non si dicono.

    Clay? — in un sussurro forte.

    Mi fermo senza girarmi. — Sì?

    – Niente.

    Il vuoto ti porta a sparire, perché non vedi, non parli, e soprattutto non ricordi. Nessuno ricorda niente, cosa hai fatto?, non ricordo. Ricordi quando eravamo bambini?, non ricordo. Qualcuno muore di overdose ma Clay non ricorda chi è. Conosci questo o quest’altro? Non ricordo.

    Ricordi l’estate scorsa? — mi chiede Rip.

    — No, veramente no.

    C’è gente intorno alla vecchia e sta arrivando un’ambulanza, ma la maggior parte dei clienti sembra non accorgersi di niente.

    – Dai, avanti, certo che ricordi.

    Il regno delle tenebre

    Sopra il lavandino, sullo specchio, qualcuno ha scritto “Il Regno delle Tenebre” a grandi lettere nere.

    Sembra che l’impossibilità di comunicare, di salvarsi, si manifesti attraverso messaggi sporadici e inquietanti.

    Io la aspetto seduto a un tavolo. Qualcuno ha scritto dappertutto “Aiutatemi” sul tavolo con una matita rossa in una calligrafia infantile con tanti piccoli svolazzi sul finale.

    Ogni tanto qualcuno, durante una delle innumerevoli feste, lo urla perfino:

    Rip alza il volume della radio e si mette a gridare allegramente: — Che fine faremo tutti quanti? — e Spin gli risponde — Tutti quanti chi? Tutti quanti chi?

    Eccoli ancora, i fantasmi. Un altro dialogo, lo psichiatra megalomane che pensa a scrivere la sua sceneggiatura finché Clay gli urla “e io?”, o il dialogo con Kim che va avanti a suon di “che fai?”, fino a dirsi di non chiederlo mai più. Farebbe risalire in superficie tutto quel vuoto. Il vuoto che pesa.

    Verso la fine del romanzo Clay parla di “fondo”, quel fondo che sembra sfiorare i piedi di tutti loro ma è sempre più profondo, dai cadaveri che sono solo marionette allo stupro di gruppo, alla prostituzione per debiti.

    Il terrore è presente ma non ha mai fine, il vuoto è un buco nero dalle dimensioni titaniche. Violenza e devianza, figlie della disumanizzazione e la decadenza della società che Ellis mostra con uno stile distaccato, uno stile che contribuisce all’horror vacui di tutta la storia.

    Come la sinossi di Meno di zero ci anticipa: Ci deve essere qualcosa che manca, ma cosa? La risposta la da uno dei giovani personaggi del libro: “Manca qualcosa da perdere”.

    meno di zero

    Books

    Libri

    Letture

  • Antigone, modello femminile

    Antigone, modello femminile

    “Donne siamo pur nate e non a lotte di uomini”

    Oct 11, 2023

    Un modello femminile senza tempo è la figura costruita da Sofocle nella tragedia del V secolo, Antigone. La sua discendenza si lega a un altro personaggio emblematico, poiché è figlia di Edipo lo sventurato (fa parte della trilogia insieme a Edipo re e Edipo a Colono).

    Nella città di Tebe si è fatta la guerra tra i due figli di Edipo (ho in mente la scena di Hercules, quando i tebani sospirano parlando di terremoti, incendi e inondazioni e pensano di trasferirsi a Sparta), Eteocle e Polinice, che sono morti combattendo l’uno contro l’altro. Antigone è loro sorella, e nonostante il divieto del re Creonte, decide di onorare il suo dovere familiare e di seppellire il fratello disobbedendo all’editto del re.

    Antigone rappresenta un esempio emblematico di disobbedienza civile, ponendo al centro della tragedia il conflitto tra legge dello Stato e legge morale. Il fatto che la protagonista sia una donna è particolarmente significativo, poiché sfida non solo l’autorità politica, ma anche le norme sociali che relegano le donne a un ruolo subordinato. Rileggendola oggi, dopo anni, emergono nuove riflessioni sulla fedeltà a se stessi e sulla difficoltà di mantenere la propria integrità in un contesto di oppressione. Il dramma evidenzia, così, il conflitto tra imperativo esterno (le leggi dello Stato e le norme sociali) e imperativo interiore (la coscienza e i valori personali).

    “Sentiamo accentuarsi impreciso ma di intenso vigore poetico un problema, che è l’anima tutta greca del dramma. È quello della duplice origine della legge e della doppia autorità che ne deriva, e cioè, in un linguaggio più nostro, del dualismo di autorità e di coscienza, di imperativo esterno ed interiore”, commenta Giuseppina Lombardo Radice nella prefazione del testo Einaudi.

    Nel prologo della tragedia Antigone già sa cosa giusto per lei, ovvero seppellire suo fratello, costi quel che costi: lo dice alla sorella Ismene, la quale replica così:

    Questo sia fermo nella mente: donne siamo pur nate e non a lotte di uomini; da più forti costrette a ubbidire, e in questo e in altro che faccia più male.

    Le donne sono nate per ubbidire agli uomini. Questo è chiaro dall’inizio, questo ci è chiaro da secoli, ma Antigone replica che sa quello che deve fare.

    Antigone non solo rispetta le leggi morali, ma fa dell’amore la piú grande delle rivoluzioni. Viene scoperta nel tentativo di seppellire Polinice e mandata dinanzi a Creonte, che le chiede come abbia osato calpestare le leggi. Antigone gli risponde così:

    […] Io non pensai che tanta forza avessero gli ordini tuoi, da rendere un mortale capace di varcare i sacri limiti delle leggi non scritte e non mutabili. […] Ora, se innanzi tempo ho da morire, io lo chiamo un vantaggio: per chi vive tra dolori infiniti, com’io vivo, perchè la morte non sarebbe un bene? […] Ti sembro irragionevole? Naturalmente; dinanzi a un folle rispondo d’un reato di follia.

    Creonte ribatte che ella non dovrebbe amare il nemico, anche se morto, e poi pronuncia una frase da maschio prevaricatore che mi è quasi insopportabile: “Me vivo, donna non avrà dominio”, o in altri termini, nessuna donna prevarrà sugli uomini finché sono vivo, e poi aggiunge: “Tornino ad esser donne, ora, e non più libere.”

    Il figlio di Creonte, Emone, dal canto suo è innamorato di Antigone e va a parlare con suo padre, gli dice “se donna sei, di te prendo tutela”, ma quello insiste con la sua cocciuta misoginia e ribatte “non assordarmi, succube di donna!”. Creonte non ascolterà neanche l’indovino Tiresia, con conseguenze sciagurate tra cui la morte non solamente di Antigone, che si impicca nella grotta in cui è stata murata, ma anche della moglie del re e del figlio Emone. Spoiler: muoiono tutti. Niente di nuovo per le tragedie greche.

    Il confronto che c’è tra Antigone, la donna che osa sfidare le leggi degli uomini, e sua sorella, che le ricorda la sua condizione di sottomessa, mi è apparsa oggi di crudele bellezza. E Antigone, di fronte a un Creonte saccente e colmo del suo potere maschile e tirannico, mi è sembrata la voce ancestrale di tutte le donne del mondo.

    E poi c’è il coro a regalare momenti lirici da commozione. Il coro era composto da un gruppo di attori e cantori, spesso tra 12 e 15 membri, che si esibivano in canti e danze.

    Molte ha la vita forze tremende; eppure più dell’uomo, vedi, nulla è tremendo. Va sul mare canuto nell’umido aspro vento, solcando turgidezze che s’affondano in gorghi sonori. E la suprema fra gli dèi, la Terra, d’anno in anno affatica egli d’aratri sovvertitori. […] Diede a sè la parola, il pensiero ch’è come il vento, il vivere civile, e i modi d’evitare gli assalti dei cieli aperti e l’umide tempeste nell’inospite gelo, a tutto armato l’uomo: che nulla inerme attende dal futuro. Ade soltanto non saprà mai fuggire, se pur medita sempre nuovi rifugi a non domati mali.

    antigone dipinto

    Jean-Joseph Benjamin-Constant, Antigone presso il corpo di Polinice, 1868