Il vuoto terrorizzante dei personaggi di Bret Easton Ellis
Nov 3, 2023
La paura del vuoto, la senti? Io la sento spesso e, a volte, con una violenza tale che il vuoto pare più distruttivo del reale. Leggere Meno di zero di Ellis mi ha condotto in un viaggio verso la profondità di quel vuoto che ci circonda e che finisce per risucchiarci, dallo stomaco alla testa, in una lenta, lentissima spirale di vacuo sconforto, disperazione. Tutti i protagonisti di Meno di zero vorrebbero urlare, ma sono muti. Popolano le vette delle classi sociali ma raschiano il sottosuolo.
– Voglio tornare indietro – dice Daniel, piano, a fatica.
– Dove? – gli chiedo, incerto.
C’è un lunga pausa che mi manda in paranoia, poi Daniel finisce di bere, tormenta gli occhiali da sole che non si è mai tolto e dice: – Non so, indietro e basta.
I protagonisti sono universitari diciottenni, la cui esistenza è così vuota che il ricordo dell’infanzia, infelice o meno, li confonde, commuove, sconvolge. Il pensiero di essere stati bambini.
Indietro. Perché vivono come fantasmi, “l’uomo continua a fissarmi ma io continuo a pensare solo che o non mi vede o io non ci sono, in questo posto.”
Esserci significa riempire il silenzio con dialoghi indifferenti, insignificanti, esserci significa non esserci, di fatto, perché per farcela bisogna tirare cocaina continuamente, ingurgitare barbiturici a ogni ora, o il Valium, o quel che sia. Tranquillanti per animali, quando capita. Lo fanno i ragazzi, lo fanno i ragazzi più piccoli, i genitori, i nonni, sono tutti sempre ubriachi, la loro vita è ubriaca, di quelle ubriachezze violente, che ti fanno vomitare e piangere e non c’è mai pausa. Mai lucidità.
Ad ogni proposta fatta per riempire il tempo Clay, il protagonista che parla in prima persona, risponde sempre “Certo, perchè no”, e questo certo-perchè-no ci accompagna fino alla fine come un’agonizzante ricerca di un significato che non c’è, perché no, se non ci sono limiti, se non ci sono regole, se abbiamo già tutto. Se tutto è finito già.
Clay si fissa sul cartello che dice Sparire Qui. Sparire, non esserci. Per non vedersi sparire, in questa Los Angeles degli anni Ottanta, tutti indossano occhiali da sole, non se li tolgono mai. A nascondere gli abusi di droghe e il dolore, a pari modo. A non voler vedere e farsi vedere, che tanto comunque non ci si vede.
Ma non resistevo a lungo, perché quando vedevo i miei occhi nello specchietto retrovisore, infossati, rossi, spaventati, venivo invaso da un vero e proprio terrore, non so perché, e tornavo a casa di corsa.
Non si vedono e non si guardano, vorrebbero dirsi, ma non si dicono.
Clay? — in un sussurro forte.
Mi fermo senza girarmi. — Sì?
– Niente.
Il vuoto ti porta a sparire, perché non vedi, non parli, e soprattutto non ricordi. Nessuno ricorda niente, cosa hai fatto?, non ricordo. Ricordi quando eravamo bambini?, non ricordo. Qualcuno muore di overdose ma Clay non ricorda chi è. Conosci questo o quest’altro? Non ricordo.
Ricordi l’estate scorsa? — mi chiede Rip.
— No, veramente no.
C’è gente intorno alla vecchia e sta arrivando un’ambulanza, ma la maggior parte dei clienti sembra non accorgersi di niente.
– Dai, avanti, certo che ricordi.
Il regno delle tenebre
Sopra il lavandino, sullo specchio, qualcuno ha scritto “Il Regno delle Tenebre” a grandi lettere nere.
Sembra che l’impossibilità di comunicare, di salvarsi, si manifesti attraverso messaggi sporadici e inquietanti.
Io la aspetto seduto a un tavolo. Qualcuno ha scritto dappertutto “Aiutatemi” sul tavolo con una matita rossa in una calligrafia infantile con tanti piccoli svolazzi sul finale.
Ogni tanto qualcuno, durante una delle innumerevoli feste, lo urla perfino:
Rip alza il volume della radio e si mette a gridare allegramente: — Che fine faremo tutti quanti? — e Spin gli risponde — Tutti quanti chi? Tutti quanti chi?
Eccoli ancora, i fantasmi. Un altro dialogo, lo psichiatra megalomane che pensa a scrivere la sua sceneggiatura finché Clay gli urla “e io?”, o il dialogo con Kim che va avanti a suon di “che fai?”, fino a dirsi di non chiederlo mai più. Farebbe risalire in superficie tutto quel vuoto. Il vuoto che pesa.
Verso la fine del romanzo Clay parla di “fondo”, quel fondo che sembra sfiorare i piedi di tutti loro ma è sempre più profondo, dai cadaveri che sono solo marionette allo stupro di gruppo, alla prostituzione per debiti.
Il terrore è presente ma non ha mai fine, il vuoto è un buco nero dalle dimensioni titaniche. Violenza e devianza, figlie della disumanizzazione e la decadenza della società che Ellis mostra con uno stile distaccato, uno stile che contribuisce all’horror vacui di tutta la storia.
Come la sinossi di Meno di zero ci anticipa: Ci deve essere qualcosa che manca, ma cosa? La risposta la da uno dei giovani personaggi del libro: “Manca qualcosa da perdere”.
